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I dipinti ritraggono i 17 desaparecidos Nikkei scomparsi in Argentina durante la dittatura degli anni 1976-1983. La parola “desaparecido” significa scomparso ed è un termine inventato dalla burocrazia della “Junta”, la dittatura militare che governò in Argentina tra il 1976 e il 1983, per classificare tutti gli oppositori politici fatti sparire dalle autorità e che rende tutta l’ambiguità, l’ipocrisia ed il sadismo di cui il regime era capace. Gaby Oshiro, con il gesto di far “riapparire” i 17 Nikkei di fronte a dei “testimoni”, fa diventare il pubblico partecipe e attivo nella reazione contro gli atti barbarici e inumani commessi dai militari argentini.

I “ritratti”, che l’artista ha ricostruito attraverso fotografie e testimonianze, vogliono ricordare quelle persone, tra cui suo padre, Oscar Takashi Oshiro, che lottarono e morirono per la giustizia, la libertà e la democrazia.

L'allestimento propone una sorta di riappropriazione dello spazio fisico: “insediando” ogni ritratto e quasi riempiendo tutta la galleria, si vuole rendere tangibile il posto che i “desaparecidos” avrebbero occupato. Nella comunità argentina Nikkei, cioè dei giapponesi che vivono fuori dalla madre patria, il ricordo dei familiari è ancora vivo, dopo più di quarant’anni, come vivi e accesi sono i nei colori della tavolozza di Gaby. La pittura qui diventa testimonianza, e sottolinea la prova della presenza del padre.

Gaby, attraverso l’esperienza fisica della pittura, mette in campo una reazione all'azione compiuta dagli assassini di suo padre che, oltre ad ucciderlo, hanno anche cercato di far sparire la sua identità, sostituendo il suo nome e quello degli altri 30.000 con un numero: “Ho passato più di vent'anni a disegnare, dipingere ritratti, occhi di estranei, evitando sempre l'argomento che era proprio di fronte a me da quando avevo 5 anni, ma che non ero mai pronta ad affrontare. Ho portato questo carico emotivo dal giorno in cui mio padre è stato catturato dalla dittatura militare argentina negli anni '70. Il peso era sempre lì, o meglio quell'assenza mi ricordava continuamente che non riuscivo a “chiudere il cerchio”; questo era anche legato alla speranza di rivedere mio padre, improvvisamente, allo stesso modo in cui era “scomparso” il 21 aprile 1977”.

Gaby ci racconta ora le sue scelte in merito a questa mostra che ha già esposto tra settembre e ottobre del 2016 presso l'Espacio Cultural de la Biblioteca del Congreso de la Nacion di Buenos Aires in occasione del centesimo anniversario della fondazione della Asociaciòn Japonesa in Argentina nell'ambito delle “Jornadas Japòn y Argenina Integrados por el Arte” allestita sempre in collaborazione con l'arch. Germano Dalla Pola.

Cos'è Kintsugi? È l'arte giapponese di riparare gli oggetti di ceramica con l’oro; ma non è solo una tecnica, è anche un'idea filosofica legata al wabi-sabi, che consiste nel trovare la bellezza in qualcosa di imperfetto. Sentivo che Kintsugi era una metafora perfetta per ricordare quegli uomini e quelle donne che sono stati colpiti dalla tragedia di perdere i loro cari così all'improvviso. Con la loro vita a pezzi, hanno trovato il coraggio di raccogliere quei pezzi e andare avanti, esigendo risposte da un governo che stava commettendo un genocidio. Abbracciando l'accettazione del cambiamento (mushin), come in "Kintsugi", l'oggetto riparato con l'oro diventa più bello a causa della sua storia e dei suoi difetti.

Nuovo punto di vista per Kintsugi, parte II.

L'installazione comprende diciassette sedie con 16 ritratti (30,5 x 45,7 cm), una tela extra vuota che ricorda Juán Alberto Cardozo-Higa e i 30 mila desaparecidos dell'Argentina.

Dal giorno in cui mio padre è stato strappato dalla mia vita, la sua sedia vuota all’ora di cena era il costante richiamo della sua assenza.

I posti che visitavamo, le persone che conoscevamo erano sempre lì; tutto era uguale, tranne la sua presenza. Il buffo papà che mi portava a scuola sulle sue spalle, era diventato una sedia vuota.

Sto venendo a patti con l'assenza, accettando il suo/loro destino non come una sconfitta, ma come una prova per me, una sfida che mi fa intuire che i 17 Nikkei sono stati presi perché rappresentavano un valore per la società Argentina. I militari eliminarono l’élite intellettuale del paese: artisti, professionisti in ogni campo, giornalisti, scrittori, poeti, ecc.

Gli ultimi due anni hanno visto molti cambiamenti tra i parenti e dentro me stessa. Ogni famiglia è diventata più forte e si rende conto che i desaparecidos Nikkei aprirono la strada per una nuova società.

Siamo tutti il ​​risultato degli eventi e delle esperienze che hanno plasmato la nostra esistenza, le avversità ci rendono individui belli, unici.

Dopo anni di silenzio dove abbiamo portando la scomparsa dei nostri cari quasi come uno stigma, ho voluto gridare al mondo, con i miei colori, che non ci stiamo più nascondendo, che siamo orgogliosi dei nostri desaparecidos, che stiamo lasciando andare il dolore e che stiamo portando ferite e imperfezioni come "cicatrici di battaglia" e che questo ci ha reso più forti. Oggi l'enorme assenza lasciata dai desaparecidos è ancora palpabile, si sente tanto quanto la loro presenza di quando erano in vita, e forse anche di più. Oggi c'è sicuramente una maggior consapevolezza in merito al loro fertile esempio di apertura verso le altre etnie, alla loro mentalità “ibrida”, all'integrazione nel loro paese sudamericano. Il loro impegno per creare un paese migliore è vivo più che mai nelle nuove generazioni.

Dopo quarantadue anni, i parenti dei desaparecidos in Argentina stanno ancora cercando giustizia e risposte sul destino dei desaparecidos. Dopo tutto questo tempo, questi volti riapparsi sulle tele, sono la testimonianza che non sono stati dimenticati.


Ho trascorso più di vent’anni a disegnare e dipingere ritratti ed occhi di estranei, evitando continuamente il soggetto che era sempre stato proprio di fronte a me da quando avevo cinque anni. Porto questo peso emotivo sulle spalle dalla sera del 21 aprile del 1977, quando quattordici uomini armati, vestiti in borghese, fecero irruzione nello studio legale di mio padre, Oscar Takashi Oshiro, e lo costrinsero ad “accomodarsi” in una Ford Falcon diretta verso una destinazione che non prevedeva ritorno. Era il periodo della dittatura militare in Argentina ed io, mia madre Beba e mio fratello Leo perdemmo il faro delle nostre vite.

Quarant’anni più tardi, improvvisamente apparso dalle nebbie del tempo, un giornalista argentino, Andrés Asato, mi chiese di parlare di mio padre per un libro che stava scrivendo sui desaparecidos Nikkei, le vittime della guerra sucia di origine giapponese. Da quel giorno, dopo una vita passata a ricostruire dimenticando, ho voluto finalmente ricordare.

La mia ricerca nella memoria non si è fermata soltanto a colui che mi era così vicino, ma ha coinvolto anche l’intero mondo di coloro che con lui hanno combattuto e sofferto condividendo ideali, speranze, desideri e voglia di cambiamento. Ho scoperto ognuno dei diciassette ritratti (questo il numero dei desaparecidos Nikkei finora accertato) dopo aver letto meticolosamente il libro di Asato “No sabían que éramos semillas” (Non sapevamo che eravamo semi) ed aver ascoltato aneddoti da amici e parenti. Ho dipinto ogni volto guardando le foto di ciascun Nikkei, ricostruendo ogni sguardo, ogni sorriso e gesto e immedesimandomi nelle loro vite. Erano ragazzi e ragazze che combattevano per i propri ideali e avevano meno della mia età oggi. Hanno preso decisioni importanti, ponendo sulla bilancia da una parte gli ideali di giustizia e libertà e dall’altra la possibilità di morire. Erano parte di una comunità, quella nippo-argentina, molto chiusa e conservatrice, che non vedeva di buon occhio l’impegno in politica e verso la quale hanno dovuto operare altre piccole e grandi rivoluzioni interne. Erano figli del loro tempo, gli anni ’70, e volevano essere come tutti i giovani in quel momento: liberi.

Mi sono presa la responsabilità di fare diventare reali i diciassette Nikkei desaparecidos, di trasformarli con colori forti, vibranti e di portarli qui con noi in un’occasione speciale come si fa con i kakemono nelle case giapponesi. Non ho mai molto apprezzato il modo col quale venivano raffigurati nelle manifestazioni e nei ricordi pubblici: erano sempre riproduzioni delle immagini in bianco e nero dei documenti di identità. Io non ho mai pensato a mio padre in bianco e nero: la nostra era una vita piena di emozioni, letture e canzoni, e quelle facce appiattite dalla riproduzione fotografica non le ho mai trovate corrispondenti al mondo che ricordavo. Ogni pennellata di colore che sono riuscita ad aggiungere a quei pallidi volti era il riempimento di un po’ del vuoto che aveva avvolto giorno dopo giorno l’immagine di mio padre da quando fu portato via.

Ho voluto fare dei ritratti veri, come se loro avessero veramente posato per me. “Tutto ciò che puoi immaginare è reale!”, diceva Picasso, e queste sue parole hanno risuonato fin dall’inizio di questo progetto. Tutto quello che ho dipinto è stato reale: per un attimo sono riuscita a guardare mio padre negli occhi, e così ho desiderato che anche le altre famiglie Nikkei avessero davanti i loro cari.

Ho chiamato quest’opera di ricostruzione Kintsugi perché, nella tradizione giapponese, kintsugi è l’arte di riconoscere la bellezza in qualcosa di rotto e, unendo i pezzi con l’oro, creare un oggetto nuovo dove imperfezioni e crepe formano ancora un’altra armonia.

Ho subito pensato fosse la metafora perfetta per ricordare la resilienza dei familiari dei desaparecidos: uomini e donne che hanno avuto il coraggio di andare avanti anche se si sono trovati con le vite a pezzi dopo che si sono visti portar via in un attimo i loro cari. Persone che per più di quarant’anni hanno vissuto in un crudele limbo di speranza e di incertezza, visto che il ritrovamento dei corpi è difficoltoso (ed ostacolato) ancora oggi.

Nel settembre-ottobre del 2016, nell’Espacio Cultural de la Biblioteca del Congreso de la Nación di Buenos Aires, nell’occasione del centesimo anniversario della fondazione della Asociación Japonesa in Argentina e nell’ambito delle Jornadas “Japón y Argentina integrados por el arte”, ho potuto presentare la mostra che è scaturita da questa ricerca. In questo luogo ho pensato, insieme al mio amico architetto Germano Dalla Pola, un’installazione in cui 17 porte, una per ritratto, disposte in circolo e incardinate una nell’altra, formassero uno spazio nello spazio in cui creare la necessaria intimità che permettesse a ogni familiare di restare a vis à vis col proprio caro.

Desidererei che azioni come quella di mio padre e dei Nikkei contro la dittatura in Argentina non rimanessero chiuse all’interno delle polverose scatole della memoria, ma camminassero per il mondo: le azioni da sole non sono sufficienti, devono essere raccontate da testimoni, e per molte generazioni, perché divengano atti veramente compiuti.

La parola “desaparecido” significa scomparso ed è così che li voleva “La Junta”. Con il nostro gesto di fare “riapparire” i 17 Nikkei di fronte a dei “testimoni”, facciamo diventare il pubblico partecipante attivo della reazione contro gli atti barbari e inumani commessi dai militari argentini.

Per quanto riguarda le mie attività espositive, ho il sostegno degli altri familiari Nikkei: per loro, sapere che non sono soli, che persone lontane riconoscono il loro impegno di vita per trovare risposte e giustizia, è motivo di grande conforto e ciò fa che anche il mio lavoro abbia un senso oltre il semplice fatto artistico.


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