Kintsugi (italiano)
Ho trascorso più di vent’anni a disegnare e dipingere ritratti ed occhi di estranei, evitando continuamente il soggetto che era sempre stato proprio di fronte a me da quando avevo cinque anni. Porto questo peso emotivo sulle spalle dalla sera del 21 aprile del 1977, quando quattordici uomini armati, vestiti in borghese, fecero irruzione nello studio legale di mio padre, Oscar Takashi Oshiro, e lo costrinsero ad “accomodarsi” in una Ford Falcon diretta verso una destinazione che non prevedeva ritorno. Era il periodo della dittatura militare in Argentina ed io, mia madre Beba e mio fratello Leo perdemmo il faro delle nostre vite.
Quarant’anni più tardi, improvvisamente apparso dalle nebbie del tempo, un giornalista argentino, Andrés Asato, mi chiese di parlare di mio padre per un libro che stava scrivendo sui desaparecidos Nikkei, le vittime della guerra sucia di origine giapponese. Da quel giorno, dopo una vita passata a ricostruire dimenticando, ho voluto finalmente ricordare.
La mia ricerca nella memoria non si è fermata soltanto a colui che mi era così vicino, ma ha coinvolto anche l’intero mondo di coloro che con lui hanno combattuto e sofferto condividendo ideali, speranze, desideri e voglia di cambiamento. Ho scoperto ognuno dei diciassette ritratti (questo il numero dei desaparecidos Nikkei finora accertato) dopo aver letto meticolosamente il libro di Asato “No sabían que éramos semillas” (Non sapevamo che eravamo semi) ed aver ascoltato aneddoti da amici e parenti. Ho dipinto ogni volto guardando le foto di ciascun Nikkei, ricostruendo ogni sguardo, ogni sorriso e gesto e immedesimandomi nelle loro vite. Erano ragazzi e ragazze che combattevano per i propri ideali e avevano meno della mia età oggi. Hanno preso decisioni importanti, ponendo sulla bilancia da una parte gli ideali di giustizia e libertà e dall’altra la possibilità di morire. Erano parte di una comunità, quella nippo-argentina, molto chiusa e conservatrice, che non vedeva di buon occhio l’impegno in politica e verso la quale hanno dovuto operare altre piccole e grandi rivoluzioni interne. Erano figli del loro tempo, gli anni ’70, e volevano essere come tutti i giovani in quel momento: liberi.
Mi sono presa la responsabilità di fare diventare reali i diciassette Nikkei desaparecidos, di trasformarli con colori forti, vibranti e di portarli qui con noi in un’occasione speciale come si fa con i kakemono nelle case giapponesi. Non ho mai molto apprezzato il modo col quale venivano raffigurati nelle manifestazioni e nei ricordi pubblici: erano sempre riproduzioni delle immagini in bianco e nero dei documenti di identità. Io non ho mai pensato a mio padre in bianco e nero: la nostra era una vita piena di emozioni, letture e canzoni, e quelle facce appiattite dalla riproduzione fotografica non le ho mai trovate corrispondenti al mondo che ricordavo. Ogni pennellata di colore che sono riuscita ad aggiungere a quei pallidi volti era il riempimento di un po’ del vuoto che aveva avvolto giorno dopo giorno l’immagine di mio padre da quando fu portato via.
Ho voluto fare dei ritratti veri, come se loro avessero veramente posato per me. “Tutto ciò che puoi immaginare è reale!”, diceva Picasso, e queste sue parole hanno risuonato fin dall’inizio di questo progetto. Tutto quello che ho dipinto è stato reale: per un attimo sono riuscita a guardare mio padre negli occhi, e così ho desiderato che anche le altre famiglie Nikkei avessero davanti i loro cari.
Ho chiamato quest’opera di ricostruzione Kintsugi perché, nella tradizione giapponese, kintsugi è l’arte di riconoscere la bellezza in qualcosa di rotto e, unendo i pezzi con l’oro, creare un oggetto nuovo dove imperfezioni e crepe formano ancora un’altra armonia.
Ho subito pensato fosse la metafora perfetta per ricordare la resilienza dei familiari dei desaparecidos: uomini e donne che hanno avuto il coraggio di andare avanti anche se si sono trovati con le vite a pezzi dopo che si sono visti portar via in un attimo i loro cari. Persone che per più di quarant’anni hanno vissuto in un crudele limbo di speranza e di incertezza, visto che il ritrovamento dei corpi è difficoltoso (ed ostacolato) ancora oggi.
Nel settembre-ottobre del 2016, nell’Espacio Cultural de la Biblioteca del Congreso de la Nación di Buenos Aires, nell’occasione del centesimo anniversario della fondazione della Asociación Japonesa in Argentina e nell’ambito delle Jornadas “Japón y Argentina integrados por el arte”, ho potuto presentare la mostra che è scaturita da questa ricerca. In questo luogo ho pensato, insieme al mio amico architetto Germano Dalla Pola, un’installazione in cui 17 porte, una per ritratto, disposte in circolo e incardinate una nell’altra, formassero uno spazio nello spazio in cui creare la necessaria intimità che permettesse a ogni familiare di restare a vis à vis col proprio caro.
Desidererei che azioni come quella di mio padre e dei Nikkei contro la dittatura in Argentina non rimanessero chiuse all’interno delle polverose scatole della memoria, ma camminassero per il mondo: le azioni da sole non sono sufficienti, devono essere raccontate da testimoni, e per molte generazioni, perché divengano atti veramente compiuti.
La parola “desaparecido” significa scomparso ed è così che li voleva “La Junta”. Con il nostro gesto di fare “riapparire” i 17 Nikkei di fronte a dei “testimoni”, facciamo diventare il pubblico partecipante attivo della reazione contro gli atti barbari e inumani commessi dai militari argentini.
Per quanto riguarda le mie attività espositive, ho il sostegno degli altri familiari Nikkei: per loro, sapere che non sono soli, che persone lontane riconoscono il loro impegno di vita per trovare risposte e giustizia, è motivo di grande conforto e ciò fa che anche il mio lavoro abbia un senso oltre il semplice fatto artistico.